di Susanna Marcellini
Per chi oggi ha tra i 13 e i 18 anni, la Nazionale italiana ai Mondiali è un’immagine sbiadita nei racconti dei genitori, una memoria televisiva in bianco e nero pur essendo nata nell’era dell’HD. È un’assenza silenziosa che si è fatta abitudine, una rinuncia involontaria a un’esperienza collettiva che un tempo univa generazioni davanti a uno schermo, con la bandiera sulle spalle e gli occhi pieni di sogni.
Per i ragazzi nati dopo il 2010, il calcio italiano non è mai stato una festa d’estate. Non hanno mai visto l’Italia entrare in campo in una Coppa del Mondo, non hanno vissuto la febbre da countdown prima del debutto, le serate nei bar, le urla ai gol, le lacrime – di gioia o di delusione – condivise con amici, sconosciuti, nonni e fratelli. Per loro, il Mondiale è una cosa che accade altrove, senza l’azzurro. Un torneo per altri.
E così, piano piano, si crea una distanza. I giovani trovano altrove ciò che il calcio non offre più: emozione, vittorie, protagonismo. Lo trovano nel tennis che ha scoperto una generazione d’oro, nell’atletica che ha corso più veloce del mondo, nel basket che ha rialzato la testa, nel volley che non ha mai smesso di lottare. Sport che, negli ultimi quattordici anni, hanno dato ciò che il calcio ha negato: un motivo per esultare. Una bandiera da seguire. Una voce da perdere per una finale.
Ma il calcio, per chi l’ha amato, rimane qualcosa di speciale. È l’odore dell’erba sotto i tacchetti di plastica, la prima figurina incollata male, le partite improvvisate nei cortili. Ed è per questo che la sua assenza brucia più di tutte: perché dovrebbe essere lì, al centro della festa, e invece guarda da fuori.
Restituire ai giovani l’Italia ai Mondiali non è solo una questione sportiva. È un dovere culturale. È offrire loro la possibilità di scoprire cosa significa sentirsi parte di qualcosa che supera i club, le rivalità, le differenze. È dare a una nuova generazione la possibilità di sentirsi – per una volta – tutta azzurra.
Perché non basta raccontare cos’era il Mondiale. Bisogna farglielo vivere. E per farlo, serve tornare. Sul campo. Nel cuore. Nella memoria che ancora manca.
Capito Spalletti?